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Intervista a Beppe Carletti, “Nomade per sempre”.

Intervista a Beppe Carletti, “Nomade per sempre”.

Donatella Lavizzari

Beppe Carletti, storico leader dei Nomadi, vanta una straordinaria e prestigiosa carriera di oltre sessant’anni. 16 milioni di dischi venduti e più di 5000 concerti con il gruppo più longevo del panorama artistico italiano: un lungo, intenso ed emozionante viaggio, percorso per i primi trent’anni con l’indimenticabile amico fraterno Augusto Daolio, scomparso nel 1992.
Una vita dedicata alla musica e alla solidarietà. Nominato nel 2005 Cavaliere della Repubblica Italiana dall’allora Presidente Carlo Azeglio Ciampi, dal 2012 è Testimonial ufficiale di City Angels Italia OdV.
Io Vagabondo, Dio è morto, Come potete giudicar, Voglia di vivere, sono alcuni degli innumerevoli inni senza tempo che hanno accompagnato la storia del nostro Paese.
Per lui, la musica è per sempre.

 

Buongiorno Beppe, la musica è la tua vita e fin da quando eri piccolo hai dimostrato di avere una grande predisposizione a suonare.
È proprio così. Premetto che non avevamo strumenti in casa, avevamo appena il pane. Eravamo poveri, come la maggior parte della gente negli anni Cinquanta.  Una vicina di casa, sentendomi tamburellare continuamente, disse a mia madre: “Senta Elvira, se non lo porta lei a una scuola di musica, lo porto io”. E fu così che mi accompagnò alla scuola della banda cittadina, ma non mi piaceva perché l’aula era troppo grande e mi sentivo oppresso. Quindi andammo dal Maestro Odoardo Mozzarini, che insegnava ogni tipo di strumento.
Quando entrai nella sua stanza, vidi per la prima volta un pianoforte, una fisarmonica, una batteria e un violino. Io, fino ad allora, avevo visto solo la banda e conoscevo solo gli strumenti a fiato. Mi chiese cosa desiderassi studiare e io non sapevo proprio cosa rispondergli!
“Ti piace la fisarmonica?”, mi domandò sorridendo. E io guardai la fisa e gli risposi di sì. Iniziai a studiarla e, piano piano, arrivai a suonare anche il pianoforte e poi le tastiere.
Avevo solo 9 anni. Mozzarini poi chiese a mia mamma se fossi bravo in aritmetica, perché esiste una connessione tra la musica e la matematica (ci sono rapporti numerici tra le frequenze, …). Iniziai quindi a studiare e ad andare a lezione. Ho avuto la grande fortuna che i miei genitori hanno creduto in me e mi hanno lasciato libertà di scelta. Fare musica e vivere di musica, allora era impensabile. Dalle mie parti infatti si diceva: ‘una fam da sunadur’.

E poi hai iniziato a suonare alle feste in casa degli amici.
A quei tempi non avevamo il giradischi e allora quando c’era una festa, mi chiamavano a suonare la fisarmonica, così li facevo ballare per due o tre ore i valzer e le canzoni del momento.

La tua prima band come si chiamava?
Ho iniziato nel 1961 con il gruppo dei Monelli, ma poi ci siamo detti: “monelli no! Siamo già grandi (avevamo appena 15 anni)”. Avevo letto un settimanale che si era appena sciolta una band di Ischia, “I Nomadi”, ci piacque il nome e lo adottammo. All’inizio ci facevamo chiamare ‘I Sei Nomadi’.

Poi avviene l’incontro con Augusto Daolio.
Sì, era il 1963 ed eravamo su un palco in una balera, ad una serata danzante. Fu il chitarrista Franco Midili, che aveva preso il posto di Mario Cambi, a presentarcelo. Visto che non ci convinceva pienamente il cantante che era stato inserito, mi disse:” Posso portarti un ragazzo che canta?” e io gli risposi di sì.
La gente andò subito in visibilio perché Ago si sapeva muovere bene sul palco e cantava brani come ‘Be bop A Lula’, in un inglese maccaronico. Però sapeva cantare! Eccome!
È stato un amore a prima vista e da quel momento è partita la nostra storia, che è proseguita fino al momento del suo saluto, nel 1992. Sono stati anni bellissimi, purtroppo conclusi tragicamente. Lui era il frontman e io suonavo le tastiere, dietro di lui. Eravamo molto diversi caratterialmente, ma riuscivamo a fonderci. Ci confrontavamo sempre, su ogni cosa. Non abbiamo mai avuto discussioni né liti. Augusto si fidava di me. I Nomadi erano come una famiglia per lui.


Il vostro è stato davvero un rapporto fraterno.
Sì, direi proprio di sì. Ci vedevamo tutti i giorni. In un brano mi ha chiamato ‘mio fratello Beppe’ e in un altro ‘il mio amico Beppe, che mi ha fatto anche da mamma’. Il nostro legame era davvero unico!

Io credo che i vostri cuori abbiano battuto all’unisono.
È proprio così. Ci siamo incontrati da ragazzi a 16 anni e siamo diventati uomini insieme. Abbiamo vissuto trent’anni insieme. È stato un rapporto meraviglioso, mai più avrei pensato che si sarebbe interrotto in quel modo doloroso.
Al nostro primo ingaggio, abbiamo trascorso 77 giorni sempre insieme, giorno e notte.  Dormivamo in quattro in una sola stanza. Stare in mezzo alla gente è una palestra di vita. Auguro ai ragazzi di fare la nostra stessa esperienza, anche se oggi è un po’ impossibile, perché non ci sono più i posti dove suonare e inoltre i dj hanno preso molto spazio, sono di moda. Cambia il mondo, cambia anche il modo di fare musica.
Adesso molti usano l’Auto-Tune, cantano anche se sono stonati. Non voglio dire che non siano bravi, ma questo non fa parte la mia cultura musicale. Ascolto questi ragazzi per conoscere la loro musica. Ma nei loro testi non c’è una parola di speranza.

La vostra storia è in parte anche la nostra storia, avete vissuto i cambiamenti di un paese intero ma credo che ci sia qualcosa, nel profondo di ognuno di noi, che attraversa le epoche e sopravvive ai cambiamenti ed è da lì che bisogna ripartire anche per costruire un ponte tra generazioni e popoli.
La coerenza, innanzitutto. Io sono sempre stato me stesso. Non ho indossato mai una camicia di un colore o di un altro per convenienza. Negli anni Ottanta imperversava la disco music, noi suonavamo ugualmente ma è stato sicuramente un periodo un po’ di crisi. Suonavamo ugualmente anche quando nessuno ci voleva, discograficamente parlando.
In tv andiamo poco, in radio ci trasmettono pochissimo. Ma siamo nelle piazze, siamo tra la gente. È questo che conta.
Abbiamo sempre resistito, non abbiamo mai seguito le mode, abbiamo sempre creduto in quello che facevamo. Perché le mode passano e se sei fuori moda non passi mai. Abbiamo fatto tutto senza pensare al successo e nessuno ci ha mai regalato nulla. Siamo nati in un’epoca in cui quando ti conquistavi una piccola cosa, la avvertivi gigante!

Augusto mi diceva spesso che sarebbe stato bello se i Nomadi fossero andati avanti anche senza di noi. Diceva: “Siamo come l’uomo mascherato: non moriamo mai”.
Nessuno di noi vuole mettersi a fare rap o trap. I più giovani non sembrano interessati ad ascoltarci, ma io dico ‘vi aspetto tra un po’ di tempo’.
Non è colpa loro, bevono quello che viene proposto.

Credo non siano educati all’ascolto.
Sono vittime inconsapevoli, sono plagiati. E questo non è bello. Dovrebbero poter scegliere.

Voi siete cresciuti con la generazione beat, c’erano tanti gruppi come l’Equipe 84, i Rocks, i Corvi, i Dik Dik. I Giganti cantavano ‘Mettete dei fiori nei vostri cannoni’. C’era una coscienza sociale e politica. Si portava avanti un discorso di ribellione nei confronti dello status quo.
Voi avete sempre portato avanti un discorso più di impegno sociale che politico.
Assolutamente sì. Non abbiamo mai fatto politica. Nessuno di noi è stato tesserato ad un partito. Alcune nostre canzoni sono state interpretate politicamente e la politica se ne è appropriata.
Ovvio che avevamo un nostro credo e delle idee a riguardo, che finivano poi nella nostra musica come scelta dei brani da scrivere e da interpretare.
Augusto, per esempio, ha scritto delle canzoni particolari come ‘Il Pilota di Hiroshima’.
Chi ci avrebbe mai pensato? Difficilmente ci si mette a pensare di scrivere una canzone su chi sta dall’altra parte.

 ‘Un duro alla maniera di John Wayne’, testimone di quell’immane tragedia che si chiama guerra. Siamo in un momento storico terribile con molte guerre in atto. Il futuro è incerto, siamo in una sorta di terra di mezzo. Da un lato c’è la strada dell’odio, del conflitto, dall’altro quella della solidarietà e della comprensione. Voi avete scelto da sempre la strada dell’impegno sociale e per i vostri meriti e le vostre azioni avete ricevuto il Premio Amnesty International e Voci per la Libertà. Con la vostra musica avete portato un messaggio di partecipazione e solidarietà a popoli e situazioni sociali “dimenticati” dalla storia e dalle cronache.
Abbiamo fatto tappa con concerti e manifestazioni in Cile (“gemellati” con gli Inti Illimani), a Cuba, in India (dove incontrammo il Dalai Lama), in Palestina (a Gaza fummo ricevuti nel suo “bunker” dal presidente Arafat), nel Chiapas (con noi venne anche Jovanotti), nel South Dakota, in Perù, in Marocco e in Albania.
La prima volta è stata a Cuba, con “Un bastimento di carta, un mare d’inchiostro”. C’era ancora l’embargo e tante cose non arrivavano. Allora con gli amici dell’Arci Nova facemmo una raccolta di quaderni e matite. L’operazione ebbe grande successo e da quel momento non ci siamo più fermati.

Ho avuto la fortuna di stare un’ora insieme al Dalai Lama. Seduti su un divano, mi disse che, se avessi compreso un po’ di più la sua religione, avrei amato di più la mia. Rimasi rispettosamente in silenzio dopo quella sua affermazione. Mi sembrava di galleggiare nell’aria.

L’ho rividi anni dopo a Bologna e poi a Votigno, in provincia di Reggio Emilia, dove un mio amico, il Dott. Stefano Dallari, ha fondato nel 1990 ‘La Casa del Tibet’, un luogo di meditazione situato su una collina, tra le antiche mura di un borgo medievale ristrutturato negli anni da artigiani e volontari provenienti da tutto il mondo.
Quando arrivò, in mezzo a tanta gente presente, indicò col dito me. Mi volle accanto a lui! Puoi immaginare la mia emozione! Indescrivibile!
Un’emozione così intensa l’ho provata anche quando ho incontrato il nostro Papa. Ho la piena consapevolezza che persone come loro non rivestono quei ruoli per caso, hanno qualcosa in più rispetto a tutti noi. Sono stato molto fortunato a conoscerle.

Una esperienza bellissima seguita da una lunga serie di iniziative umanitarie. Mi vuoi parlare di quelle attivate in Cambogia?
Sono stato in Cambogia nel 2002/2003. Erano anni in cui l’AIDS mieteva ancora molte vittime. Mi hanno accompagnato in una casa chiamata “I mille giorni”, perché questo è il tempo di vita stimato per i bambini affetti da quella terribile malattia. Li raccoglievano lunghe le strade e li portavano lì a morire. C’erano anche dei neonati che venivano abbandonati dalle madri… una cosa straziante.
Poi ho voluto visitare
il liceo Tuol Sleang, utilizzato dai Khmer Rossi per torturare ed eliminare più di 18.000 prigionieri in tre anni. Colpevoli solo di essere stati accusati di reati o tradimenti inesistenti. Una piccola Aushwitz.

Mi atterrisce il livello a cui può arrivare la mente umana. Come recita un vostro testo: “Ancora tuona il cannone, ancora non è contento di sangue la belva umana e ancora ci porta il vento e ancora ci porta il vento…”.
Riparlando di bambini, molti di loro non hanno diritto ad una infanzia felice.
Purtroppo, è proprio così. Insieme all’avvocato Marco Scarpati, direttore dell’ufficio cooperazione di Cifa Ong e a Pierluigi Senatore di Rock No War) nel 2010 abbiamo dato vita al progetto “Via del Campo” per tutelare i diritti dei bambini più fragili di Sihanoukville (la Sin City cambogiana) e offrire loro un’alternativa alla prostituzione, al lavoro e agli abusi. Abbiamo realizzato uno spazio dove poter mangiare, studiare, fare sport, giocare, essere accuditi e curati.
A Battambang c’è un ospedale destinato ai bambini mutilati dalle esplosioni delle mine antiuomo e Stefania, un’operatrice italiana, mi chiese di aiutarla a costruire una casa di accoglienza per i bimbi dimessi perché, se fossero tornati a casa così menomati, li avrebbero mandati per strada a chiedere l’elemosina.
Riuscimmo a realizzarla con l’aiuto di tutti i nostri Fan e Fan Club. È una struttura per 25 bambini: il centro è tenuto molto bene ed è super funzionale.
Ogni tanto io torno a controllare se tutto procede bene, perché spesso capita che dopo la realizzazione queste strutture purtroppo vengano abbandonate.
Sono stato anche in Madagascar e lì ho dato inizio alla costruzione di una scuola, con due aule da 60 bambini l’una. Poi è subentrato un signore di Pistoia benestante a cui era morta la figlia, che, in sua memoria, ha portato a compimento l’opera, creando una struttura per 600 bambini con relativa mensa. Perché devi sapere che, se non c’è la mensa, i bambini non vengono mandati a scuola. Successivamente ne ho aperta un’altra più piccola nella foresta pluviale. Dopo lo stop forzato dovuto alla pandemia, ho ripreso a viaggiare. Anche se i miei figli simpaticamente mi dicono: “Papà! Attento agli anni!”.

Quest’anno il Giorno della Memoria è coinciso con l’80esimo Anniversario della Liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. Ci tornerai?
Si ci tornerò a maggio. Ci tengo in modo particolare perché mio padre è stato in un campo di concentramento. Sono coinvolto emotivamente. Quando arrivi laggiù ti si ferma il respiro. Avverti il dolore, che diventa, a tratti, insopportabile.

Nel vostro repertorio c’è il brano Auschwitz di Francesco Guccini, ci vuoi parlare della vostra amicizia.
Ci siamo incontrati nel 1966 e abbiamo iniziato ad interpretare i suoi brani e ad inciderli. Il primo è stato ‘Noi non ci saremo’. Andavamo spesso a casa sua per confrontarci sulla stesura della canzone. C’era un bellissimo rapporto tra me e lui, come lo è tuttora. C’è stima reciproca. Lui mi diceva sempre: “Beppe, io e te siamo uguali, ti manca solo l’università.” E io, ridendo, gli rispondevo:” Francesco, mi manca anche quella prima, non solo l’università”.
Mi sono fermato alla terza media, all’epoca non c’erano soldi per studiare.

Tra i tanti incontri, c’è stato anche quello con il Presidente Mattarella, per i vostri 60 anni di carriera.
È stato un grandissimo onore incontrarlo. È un uomo eccezionale, capace di trasmettere serenità e pacatezza. Ci ha convocati per un incontro privato. Stavamo aspettando in una stanza, quando entrò un signore che mi chiese di seguirlo. Mi accompagnò dal Presidente e immediatamente nacque una simpatia reciproca, sugellata da una risata. Iniziai a parlare della nostra storia e mi resi conto che non era affatto impreparato. Ad un tratto, scherzando, gli domandai se si potesse fare qualcosa per fermare i Rolling Stones, visto che loro sono la band più longeva al mondo e noi la seconda. Lui si mise a ridere. È stato bellissimo, non me lo scorderò mai.
Sono grato alla Musica, per avermi donato veramente tanto nella vita.

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Mi piacerebbe un tuo pensiero dedicato a Luigi Tenco, che tu ami profondamente.
Lo amava tantissimo anche Augusto. Nei nostri concerti, cantava sempre ‘Mi sono innamorato di te’, perché era nelle sue corde. La sentiva. Eravamo talmente in sintonia che bastava un cenno e iniziavo a suonarla. Tenco era un grande, ci avrebbe donato ancora tanto. Purtroppo, non lo abbiamo mai incontrato perché, quando è morto, noi non eravamo ancora famosi.
In Italia abbiamo davvero cantautori straordinari, mostri sacri della Musica.

Tu sei molto legato ad altri due Artisti, uno è Zucchero Fornaciari e l’altro è Luciano Ligabue.
Zucchero veniva sempre ai nostri concerti, lo accompagnava suo papà con la Lambretta. Veniva sempre a casa mia portandomi i suoi demo e chiedendomi consigli.
Poi mi chiese se potessi farli ascoltare a qualche direttore artistico di case discografiche. Così chiamai il mio e gli dissi: “Senti, ho mio cugino che scrive delle canzoni, lo potresti ricevere per una mezzora?”. E così iniziò il suo percorso.

Per un periodo ho avuto un negozio di dischi e Luciano venne a farmi sentire quello che aveva scritto. Mi propose di cantare i suoi brani, ma io, dopo averli ascoltati, gli dissi: “Luciano, li devi assolutamente cantare tu”.
Dopo 20 anni, mi disse: “Sai Beppe che quella volta avevo sbagliato musicassetta, era un’altra che volevo darti”.

Che cosa vuole dire per te essere visionari?
Essere sognatori. Proietto sempre i miei sogni nel futuro. Guardo sempre avanti.

Per fare un poema dadaista, Tristan Tzara formulò questa ricetta: “Prendete delle forbici, scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema. Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che lo formano e mettetele in un sacco. Agitate piano, tirate fuori ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco e copiate coscienziosamente. Il poema vi somiglierà. Tu quali parole estrai dal sacco?
Come prima parola, io direi amore, per le persone e per la vita, Sentimento che spesso le persone dimenticano o, peggio, ignorano. La seconda è, senza dubbio alcuno, pace. La terza, coerenza.

 

Come diceva sempre Augusto, alla fine di un vostro concerto, ti dico: “Grazie Beppe, è stato veramente bellissimo”.

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