Come vengono lavorate le farine
Dal Valore Alimentare:
Nel biologico, oltre che alla tradizionale molitura a pietra, per la lavorazione dei grani si può ricorrere anche ai moderni mulini a cilindri scanalati, che hanno la funzione di “sfogliare” il grano, uno strato per volta. Sotto questi cilindri sono posizionati dei setacci, man mano che si scende con fori sempre più piccoli, in modo da separare i vari prodotti e sottoprodotti. Poi si passa attraverso un certo numero di laminatoi che frantumano e svestono il grano; infine i plancsister che hanno la funzione di setacciare. Sono posti uno sotto l’altro, hanno fori di diversa grandezza e si muovono di continuo con forza a imitare il movimento del setacciare. Questi mulini si riconoscono facilmente perché si sviluppano in verticale: dall’alto entra il grano e nel fondo esce la farina. Il mulino a cilindri è particolarmente apprezzato per le farine a uso professionale perché permette di uniformarne la qualità.
Il mulino a pietra
Con i vecchi mulini a pietra la separazione dei prodotti non avviene durante la molitura, ma solo in seguito. La mola a pietra non riesce a separare i vari tipi di farina e neanche i diversi tipi di sottoprodotti e così si otterrà una farina più proteica delle farine lavorate nei molini a cilindri, leggermente più scura; la crusca conterrà anche tritello e farinetta. La distanza fra le mole è regolabile e questo permette di scegliere la granulometria del macinato. Per l’uso casalingo, la farina macinata a pietra è ancora da consigliare, la qualità è più variabile ma – quando ottenuta da abili mugnai – può raggiungere punte di eccellenza sia dal punto di vista qualitativo che nutrizionale.
Il contenuto proteico della farina
Dal punto di vista tecnologico, la proprietà più importante da tenere in considerazione per una scelta adatta alla ricetta che si vuole preparare è il contenuto proteico. Grazie all’alveografo di Chopin si rilevano i tre principali indici qualitativi: W (indice di forza della farine), P (indice di tenacità dell’impasto), L (indice di estensibilità dell’impasto). Nelle farine che compriamo in negozio, raramente sono indicati questi parametri qualitativi che sono essenziali, invece, per i prodotti a uso professionale.
Le farine per uso domestico sono invece classificate in base alla composizione, al contenuto in ceneri e al grado di abburattamento. Le ceneri sono costituite principalmente da sali minerali: più una farina è bianca e raffinata, meno ceneri contiene. Una farina integrale, essendo utilizzato tutto il chicco, avrà invece un alto contenuto di sali minerali e quindi di ceneri.
Le diverse tipologie di farine
La farina tipo 00 ha subito un abburattamento del 50%: è la più raffinata, ricavata dal cuore amidaceo del chicco e per questo più ricca in zuccheri e proteine.
La farina tipo 0 ha subito un abburattamento del 72% e contiene dunque una maggiore quantità di prodotto proveniente anche dalla parte più esterna del chicco.
Le farine tipo 1 e 2 hanno un grado di abburattamento rispettivamente dell’80% e dell’85%.
La farina integrale non è stata setacciata ma ha semplicemente subito il primo processo di macinazione. Contiene pertanto tutte le parti più esterne del chicco, quali la crusca e il germe.
Gli sfarinati di frumento duro sono classificati come: semola di grano duro, semolato di grano duro, semola integrale di grano duro e farina di grano duro.
Per tutti gli altri tipi di cereale i mulini possono classificare a proprio piacimento.
Gli additivi
Le farine, soprattutto quelle a uso industriale, possono essere addizionate con i cosiddetti “miglioratori” che comprendono sia sostanze alimentari vere e proprie che additivi, naturali o di sintesi. Nel primo caso troviamo prodotti come zuccheri, farine di cereali maltati, olio, strutto, latte che possono essere utilizzati per produrre pane o “pani speciali” come la“Coppia ferrarese Igp” (pane tipico della provincia Ferrara), il cui disciplinare di produzione impone tra gli ingredienti lo “strutto di puro suino”. Tra gli additivi, invece, alcuni hanno un’origine naturale (come glutine, lecitina di soia, estratti di malto, amidi e alfa amilasi); altri sono tipicamente di sintesi chimica: acido acetico (E260), potassio acetato (E261), – sodio acetato (E262), calcio acetato (E263), acido lattico (E270), acido propionico (E280), propionato di sodio (E281), propionato di calcio (E282), – propionato di potassio (E283), tutte sostanze che evitano il “collasso” del glutine. Ma si arriva ai ben più problematici acido sorbico (E200), potassio sorbato (E202), – calcio sorbato (E203) che hanno funzioni antimuffa. Tutti questi additivi sono vietati nella produzione biologica con la sola esclusione dell’innocuo acido lattico.
I “miglioratori” sono utilizzati per correggere farine con caratteristiche qualitative non ottimali o per ottenere lievitazioni davvero eccezionali; il loro impiego è anche legato all’esigenza di conservare i prodotti da forno per tempi lunghi sugli scaffali dei punti vendita e nei pani parzialmente cotti.
È indubbio che utilizzando una buona farina di qualità e un buon lievito fresco non industriale (meglio ancora il lievito di pasta madre), si ottiene un buon risultato anche senza miglioratori.
In diversi prodotti l’impiego dei miglioratori viene mascherato nell’etichetta del prodotto finale. Questo perché l’acido sorbico o altre sostanze aggiunte alla farina, possono modificarsi nel corso del processo, diventando non più additivi, ma coadiuvanti tecnologici, che non è obbligatorio citare in etichetta. Questa debolezza legislativa penalizza i consumatori (in particolare i vegani e chi non accetta ingredienti di origine animale). Le farine più manipolate e “migliorate” hanno un uso prevalentemente industriale. Le farine speciali destinte ai cosumatori che troviamo nei negozi sono ottenute con grani particolari, ome kamut®, avena, orzo, grano saraceno, 5 cereali, ecc. Solo a volte sono arricchite con glutine, lievito di birra o altri agenti lievitanti come il cremor tartaro e il fosfato monocalcico, sostanze innocue che rendono più facile l’impiego delle farine e diffuse anche nella versione bio.
Alcuni consigli
Non poteva mancare, per finire, un consiglio per la buona conservazione. La farina deve essere conservata nei sacchetti di carta a una temperatura che non superi i 22°C, in un ambiente fresco, asciutto e arieggiato. L’umidità non dovrebbe superare il 68%. L’eccessiva umidità porta il formarsi di grumi e favorisce la formazione di muffa. Le basse temperature rallentano l’attività enzimatica, utile al momento dell’impasto.